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Il Principio di Archimede - Recensione

Il Principio di Archimede

Giuliano Galletta sul Secolo XIX (2002)

Nel 1944 Dario Lanzardo aveva dieci anni e viveva con i genitori a Fosdinovo, un piccolo paese vicino alla Spezia. Il padre era un fotografo ambulante e il reddito della famiglia si fondava tutto su una preziosa quanto perfetta Leica. Cosciente dell'importanza della macchina fotografica e della precarietà della situazione sotto l'occupazione nazista il padre si raccomandò con la moglie che, qualsiasi cosa fosse accaduta, non avrebbe mai dovuto consegnare la Leica a nessuno e per nessun motivo.

Pochi giorni dopo Lanzardo padre fu catturato dai tedeschi durante un rastrellamento (riuscì poi avventurosamente a fuggire dal treno che lo stava portando a Mauthausen) e la moglie si trovò nella difficile situazione di mettere in atto le indicazioni del marito: proteggere ad ogni costo la Leica che nel frattempo era finita, perfettamente sigillata, nell'orto, sotto un cumulo di letame.

Il comando tedesco conosceva bene il fotografo e la sua macchina e non passò molto tempo prima che un ufficiale si presentasse in casa Lanzardo per chiedere la consegna della Leica. La madre disse no, una, due, tre volte, ma alla fine sotto la minaccia di un mitra spianato consegnò la macchina fotografica.

Quasi quarant'anni dopo, nel 1973 a Torino, durante una manifestazione per l'occupazione delle case, Dario Lanzardo incontrò un amico che gli propose di comprare una Leica usata identica a quella del padre (chissà, forse la stessa), completa di rullino e dall'origine piuttosto incerta. Con quella macchina Lanzardo ricomincia la sua attività di fotografo, abbandonata all'inizio degli anni Sessanta, documentando proprio quegli scontri di piazza in cui non mancò di prendersi anche qualche manganellata. L'episodio della Leica troverà spazio nel primo romanzo di Lanzardo "Il principio di Archimede" in cui il fotografo racconta una storia, al limite del giallo, basata sulla sua esperienza di giovane marittimo a bordo delle tristemente famose "carrette" degli armatori genovesi degli anni Cinquanta. La scrittura, prima saggistica e ora anche narrativa, è da sempre strettamente connessa al lavoro del Lanzardo fotografo. La mostra "Soglie d'ombra e di luce" che è un po' il cuore dell'evento che si apre oggi alla Spezia ne è un esempio emblematico.

Il tema del passaggio, dell'attraversamento è infatti altamente simbolico, iperculturale in senso antropologico e, finalmente, squisitamente filosofico. Lanzardo non è solo un rapace osservatore, uno sguardo perennemente allertato sul mondo ma anche un vorace lettore, un collezionista di idee che scova ovunque si nascondano. La sua passione filosofica non è slegata dall'amicizia con Gianni Carchia, uno dei più importanti pensatori italiani del dopoguerra, prematuramente scomparso.

Le fotografie di questa mostra - spiega Lanzardo - sono tratte dal mio archivio personale e si sono accumulate nel corso degli ultimi venticinque anni attorno ad alcuni filoni di ricerca sul rapporto uomo-natura che già avevano fatto emergere la rilevanza estetica e poetica di soglie e passaggi. Mentre Lanzardo lavorava (freneticamente, come è sua abitudine) a libri e mostre, le immagini delle soglie fisiche, porte, finestre, cancelli, balconi prendevano vita insieme a quelle spirituali, in cui l'umano si autorappresenta in rapporto al passaggio per eccellenza, la morte. Statue, manichini., armature, spaventapasseri, ma anche opere d'arte e icone della cultura popolare. La selezione effettuata da Lanzardo, a posteriori, costruisce un viaggio avventuroso in una metropoli della mente, un sorta di racconto bachelardiano.

Si direbbe tutta la propria vita - scrive infatti il filosofo francese - se si dovesse raccontare di tutte le porte che si sono chiuse, aperte, di tutte le porte che si vorrebbero aprire.

Naturalmente in questo contesto narrativo - prosegue Lanzardo - madre di tutte le possibili soglie è la stessa macchina fotografica, che viene anteposta a quella naturale dell'occhio, una super-soglia, preziosa per lo sguardo sensibile, che individua altre soglie nel mondo reale che altrimenti resterebbero sconosciute ai più nella quotidianità degli spazi abitati. Soglie sospese fra un prima e un dopo, oltreché fra un dentro (l'inquadratura) che si vede e un fuori che si può immaginare; così che è lecito pensare che una fotografia può esser particolarmente bella quando esprime limpidamente il suo ambiguo potenziale di soglia, come esperienza dell'immaginario.

Per Roland Barthes lasciarsi fotografare significa vivere una micro-esperienza della morte (della parentesi). L'esperienza "originaria" del fotografo Lanzardo riguarda proprio un pericolo di morte; quel mitra spianato sul volto coraggioso della madre che, attraverso una semplice macchina fotografica, difendeva se stessa, la sua famiglia e forse, in quel momento, le condizioni-base di una vita possibile.


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