Immagine sul doppio

Il Principio di Archimede - Recensione

Il Principio di Archimede

Gianluca Trivero sul Secolo XIX del 24 aprile 2006

E’ un Oceano. E’ l’Atlantico. Ad arrancare in mezzo ai marosi c’è un vecchio cargo rugginoso di 10.000 tonnellate, le cui strutture cigolanti mostrano anche le cicatrici dei mitragliamenti degli stukas; perché la nave è una delle 2578 “Liberty” costruite in cento angoli d’America tra il 1941 e il 1945 per portare truppe, armi, mezzi e rifornimenti sui fronti di guerra. In un altro tempo, con altri uomini.

Adesso, a dieci anni dalla fine del conflitto, la nave - comprata per nulla da un armatore senza scrupoli per impiegarla sulla rotta Genova Baltimora nel carico del carbone - è invece lo spazio claustrofobico dove va in scena l’evoluzione esistenziale di un giovane allievo ufficiale di macchina, raccontata nelle pagine di “Il Principio di Archimede”(Effigie Edizioni) scintillante esordio di narratore dell’oggi settantenne Dario Lanzardo, già autore di saggi politici e numerosi libri di ‘immagini e parole’, che ne fa uno dei più innovativi fotografi italiani.

Sapevo che un giorno mi avrebbero chiamato…” l’incipit del testo, sinteticamente intriso di una sorta di destino fatale che riecheggia percorsi conradiani, porta l’io narrante, neodiplomato all’istituto nautico e aspirante fotoreporter, a bordo del residuato bellico con l’idea di trarre profitto dal mestiere di navigante, per allargare il mondo delle sue conoscenze e delle prospettive professionali.

Ma l’attraversamento della “linea d’ombra” del protagonista, il suo percorso di formazione dall’età delle illusioni a quello delle consapevolezze, non avverrà utilizzando la nave come mezzo per raggiungere luoghi esotici e orizzonti avventurosi, ma come imprigionante antro fumoso e assordante, spazio chiuso saturo di un’entropia di tubi oleosi gocciolanti e minacciose caldaie incandescenti, dove le incertezze dell’inefficienza e la prevaricazione delle gerarchie finiscono con l’essere più insidiose dello stesso oceano che preme sulle precarie strutture del cargo.

A scandire i massacranti turni nelle viscere del bastimento - “La gente di macchina si muove senza sapere come e dove, immagina per non subire passivamente un mare che muta rapidamente e preme contro pareti di ferro che la racchiudono; percepisce la profondità come abisso, assapora lo spavento antico del profondo, ma anche l’inquietudine per il suo potere di attrazione”- si susseguono le cene della mensa ufficiali dove fin dalla prima sera - un po’ come Ulisse con i Feaci - con l’intento di suscitare consenso e simpatia, il nuovo arrivato racconta le sue precedenti esperienze giornalistiche e il progetto di fare foto e spedire servizi dalle località di transito. Entrando così subito in contrasto con il comandante, che pranza separato da un paravento che ne lascia solo intravedere l’alta sagoma allampanata: “Si è imbarcato per lavorare in macchina o cosa? Badi che qui il lavoro non manca se uno vuole imparare e fare carriera: domattina comincerà a rendersene conto.

Un tentativo di reportage a Ceuta, nel Marocco spagnolo, darà il via a uno scontro sempre più violento tra l’allievo di macchina e il capitano. Critiche fondate come gli impianti osboleti e insicuri, l’incapacità professionale al comando, la sua compromissione con gli interessi armatoriali, s’intrecceranno nella mente del narratore a suggestioni dell’infanzia vissuta nel paese di Fosdinovo, durante la guerra: stati quasi allucinatori ma al tempo stesso intuitivi, che portano il protagonista a ritenere che la figura che una notte vide spingere dall’alto di un muraglione sottostante una donna sia stato proprio quel capitano, che ora, consapevole di essere sospettato, sembra far di tutto per costringere Davide a incarichi rischiosi, indifferente a una sua improvvisa, dolorosa malattia, e quasi speranzoso di poterlo presto chiudere da morto in un sacco di tela catramata. Eppure, proprio attraverso questo conflitto quasi surreale con la figura sempre al di là del paravento Lanzardo riesce a delineare la forza motrice del racconto, il nesso verità/libertà, la volontà ingenua di svincolarsi dai legami gerarchici ( semplici quanto evocative le pagine in cui il giovane cadetto scopre modi di vita, rassegnazioni e umili ambizioni della “bassa forza” a bordo), ma anche dalle semplificazioni ideologiche, la consapevolezza di un popolo ancora saturo di rosari e immaginette votive, di lotte sociali irrisolte, di ricatti economici e ipocrisie.

Poi, pur lottando con il peso del carbone e quello delle passioni dei suoi naviganti, la vecchia Liberty giunge al porto di ritorno.

E il protagonista - forse già irretito dal Futuro che lo attende - scendendo dalla passarella ha appena il tempo di intuire il volto ossuto del suo persecutore che occhieggia da un oblò, seminascosto dalla salsedine sul vetro, egli stesso vero prigioniero di un mondo dove non c’è più “ritorno a terra” possibile.


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