Immagine sul doppio

Il Principio di Archimede - Recensione

Il Principio di Archimede

XIX Salone Internazionale del libro di Torino, presentazione di Il principio di Archimede di Dario Lanzardo, 6 maggio 2006

Giovanna Ioli

Non sono la sola a conoscere Dario Lanzardo come il grande fotografo che ha espresso in 23 volumi monografici la possibilità di esprimere un linguaggio fatto di immagini. Basta sfogliare uno di questi volumi per capire che non c’è solo il suo occhio dietro l’obiettivo, ma un talento che ha radici antiche, eredità, cultura, un modo speciale di guardare il mondo: voglio dire che il suo occhio spesso vede quello che ad altri sfugge. Coglie un attimo, un’espressione, un riverbero, cose e personaggi che incarnano un doppio, bambole, manichini, spaventapasseri, armature, in altre parole, coglie le maschere degli uomini o degli oggetti, quelle maschere che già Jung chiamava personae. Perciò si può dire che Dario ha sempre raccontato delle storie, altre storie, che non riguardavano più l’oggetto rappresentato, ma la sua improvvisa apparizione. Perciò il suo esordio nella narrativa non ci stupisce, perché è la tecnica, il metodo che un fotografo come Lanzardo adotta, che trova come esito naturale la narrativa. L’attimo giusto, la luce adatta, il montaggio come discorso unitario, l’ambiguità, la pluralità di interpretazioni che potranno derivare, fanno subito venire in mente il processo che trasforma un mucchio di parole in un testo letterario. Questo libro, allora, e quelli che lo precedono, seppure di genere diverso, testimoniano ancora una volta che non esiste un’arte suddivisa in generi, ma l’arte tout court.

Molte sono le sue foto che riaffiorano nel romanzo: un palombaro, l’ombra, gli specchi, l’autoritratto, fusi in una storia e una scrittura che sanno restituire al segno grafico la limpidezza delle immagini e anche il sogno della totalità. Non a caso, la scrittura di Lanzardo è limpida. La chiarezza è uno dei primi elementi e pregi di questo libro e non significa, ovviamente, semplicità. Il libro è, infatti, fitto di informazioni, dettagli, ingranaggi, personaggi che riflettono la molteplicità dell’umanità rinchiusa in un cargo che fa rotta da Genova a Baltimora: un microcosmo che rispecchia il mondo. Il tutto è accompagnato dal giudizio che non si lascia corrompere dalle circostanze.

La foto di un palombaro in copertina e la Leica di suo padre, in apertura del racconto, rappresentano allora l’antefatto e si annunciano come appello al lettore e strumento di lettura. La Leica è sistemata in cabina come un doppio di se stesso, ma personificata dal carico affettivo di chi l’ha posseduta:

Avevo tolto dalla valigia la vecchia Leica di mio padre; l’avevo posata sulla tavola con cautela, quasi fosse la chiave segreta di quel viaggio: comunque fossero andate le cose da macchinista, potevo sempre collezionare immagini di luoghi sconosciuti, L’apparecchio era famoso per la qualità della meccanica, la luminosità degli obiettivi. Per me aveva un significato particolare: era il custode metafisico di sensazioni vissute da mio padre nel corso di due periodi della sua vita.

La mitica Leica, insomma, è un’eredità artistica e un personaggio, che segue Dario anche nel viaggio narrato in queste pagine, nel momento in cui deve misurarsi con l’imperfezione di un’altra macchina, della macchina umana, con l’oscurità d’altri punti di vista, logorati come le valvole della vecchia nave, usurata per l’incuria e la fame di profitto di chi la comanda. La chiave segreta del viaggio di Lanzardo è proprio questa, ma che cosa rappresenta il principio d’Archimede, la legge della fisica che consente ai corpi finiti in acqua di tornare a galla? Lo hanno sperimentato tutti quelli che hanno imparato a nuotare con questo sistema, come Dario Lanzardo bambino nel mare di levante, ma, dal punto di vista letterario, il principio d’Archimede qui esprime anche il principio della memoria, di qualcosa che è rimasto sul fondo e che ora riaffiora, spinto in superficie da una forza narrativa che si fa racconto, romanzo di formazione, che spiega e interpreta l’evento che determinerà il temperamento del protagonista e il corso di tutta una vita.

Per dovere di cronaca, occorre ricordare che Lanzardo non è solo un fotografo. È stato ed è un giornalista, un raffinato saggista, un lettore vorace di tutto ciò che sfiora la sua vasta tastiera d’interessi, che si avvale della parola scritta per documentare un fatto o per raccontare il mondo delle sue fotografie. Anche questo entra a far parte del romanzo. Anche i libri d’altri, infatti, hanno un loro ruolo. Sarebbe naturale pensare alla narrativa di viaggio, Conrad, per esempio, che a un certo punto della sua esistenza prende la via del mare come il protagonista di questo libro, ma è un abbaglio. Il viaggio di Lanzardo non si compie sul mare, ma nel chiuso in un’armatura di ferro gigantesca, quella del cargo che fa la spola tra Genova e Baltimora. La sua cabina è piccola, come è piccolo l’oblò, dal quale si vedono onde che incombono e sommergono. La sua cabina è gelida per un’avaria nella ventilazione o rovente per un difetto della stufa. E quando esce dalla sua cabina non lo attende un lavoro in coperta, ma un compito che lo spinge ancora più in fondo, nel cuore stesso della nave Liberty sulla quale naviga, una specie di residuato bellico ancora ferito dai fori dei proiettili dell’ultima guerra. Non è un’immagine figurata la mia, perché il protagonista Davide, che tanto assomiglia all’autore, s’imbarca come allievo ufficiale di macchina e questo significa stare in una fornace, con un’aria asfissiante e un rombo continuo di macchinari che niente hanno a che vedere con il cantico del mare.

Negli anni in cui si svolge questa storia – gli anni Cinquanta – il vapore aveva ormai preso il posto del vento e il nuovo allievo ufficiale di macchina non lavora più tra rande e terzaroli, ma in una selva di valvole, tra aromi di nafta e lubrificanti. È la sala macchine il cuore pulsante della nave, non è il vento e questo significa stare nel ventre della balena, una vecchia balena stanca di viaggiare.

L’unico libro che porta con sé a bordo non è, dunque, un racconto marino di Conrad, né di Hemingway, ma è il castello di Kafka, la storia di una prigione senza scampo e di un lungo processo che è anche giudizio sugli uomini e sul mondo. Il processo comincia in un momento preciso della navigazione, quando l’allievo racconta ai compagni di non essere semplicemente un macchinista in cerca di denaro, ma un giornalista e un fotografo: un dettaglio che fa emergere subito una cortina di sospetto. La “scrittura” porta nelle menti degli altri una sensazione di allarme, che neppure le onde che a volte sovrastavano la nave poteva insinuare: un allarme subito giustificato da un incidente diplomatico al primo sbarco, sulle rive del Marocco, per delle foto scattate dall’allievo di macchina a una caserma del “generalissimo”. La parola, scritta o figurata in immagini, insomma, erano un pericolo incombente. Allo stesso modo era un pericolo la libertà intellettuale, la capacità di vedere le cose spogliandosi dei pregiudizi, dei piccoli interessi personali.

L’allievo Davide trascorrerà i suoi mesi di crociera sotto processo, con un capitano che non tollera quella sua libertà, il suo modo di vedere le cose con spirito di eguaglianza nei confronti dei suoi superiori, ma soprattutto nei confronti dei mozzi, gli sguatteri, dei marinai senza mostrine, ormai rassegnati a una fatica senza riscatto. Nel momento in cui questa situazione lo spinge al culmine dell’intolleranza, della sofferenza claustrofobica, ecco scattare in lui il principio d’Archimede. Non si arrende, tornano a galla il coraggio, la dignità, la capacità di giudicare e di scegliere la via più ardua, l’unica a garantirgli la statura di uomo. Sceglie la via della denuncia, della verità, con la consapevolezza che la sua scelta determinerà l’espulsione da quella piccola società che rispecchia l’intera società del tempo, di ogni tempo.

Lo specchio di tanti compromessi sarà un delitto rimasto sempre impunito, ma che viene riportato a galla con la forza del principio d’Archimede. Tornato in superficie, il male può anche essere senza soluzione, senza la condanna di un tribunale, ma ha perso per sempre la sua maschera di perbenismo. Per questo il filo narrativo si tinge di giallo, con il sospetto che sotto la maschera del capitano si celi il volto di un assassino, impunito fino al momento in cui l’occhio del narratore lo giudica e lo condanna, riportando alla luce anche un crimine dimenticato, archiviato dal tempo e dall’oblio.


<< Torna alla scheda del libro